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Walter Fusi nasce ad Udine il 3 agosto 1924 e all’età di quattro anni si trasferisce con la famiglia a Colle Val d’Elsa, luogo di origine dei genitori. Lì frequenta l’Istituto magistrale poi, incline fin da piccolo alla pittura, si iscrive all’Istituto d’Arte di Siena dove avviene la sua primissima formazione artistica; nel 1943 si diploma e l’anno seguente, nonostante le difficoltà causate dalla guerra, inizia gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come racconta Giuliano Serafini: “per un certo periodo, la spola tra Colle e il capoluogo toscano la fa con il camioncino militare americano che approvvigiona di giornali l’hinterland” (Giuliano Serafini, Walter Fusi la pittura dentro, cat. della mostra, a cura di Giuliano Serafini;...
Walter Fusi nasce ad Udine il 3 agosto 1924 e all’età di quattro anni si trasferisce con la famiglia a Colle Val d’Elsa, luogo di origine dei genitori. Lì frequenta l’Istituto magistrale poi, incline fin da piccolo alla pittura, si iscrive all’Istituto d’Arte di Siena dove avviene la sua primissima formazione artistica; nel 1943 si diploma e l’anno seguente, nonostante le difficoltà causate dalla guerra, inizia gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come racconta Giuliano Serafini: “per un certo periodo, la spola tra Colle e il capoluogo toscano la fa con il camioncino militare americano che approvvigiona di giornali l’hinterland” (Giuliano Serafini, Walter Fusi la pittura dentro, cat. della mostra, a cura di Giuliano Serafini; Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro, 28 ottobre 2000-7 gennaio 2001; Firenze 2000, p. 11 ). Il primo anno è allievo del pittore fiorentino Ennio Pozzi, poi del maestro Emanuele Cavalli, il quale nel 1932 a Roma, insieme a Corrado Cagli e Giuseppe Capogrossi aveva costituito il Gruppo dei Pittori Tonali. Fusi gradisce molto la pittura di Cavalli, come è riscontrabile nelle sue prime opere caratterizzate dalla semplicità del disegno e dal tonalismo cromatico di stampo espressionista, e lo apprezza non solo per la sua maestria e bravura, ma anche per l’ umanità dimostrata nei confronti degli allievi; egli racconta, infatti, che il pittore permetteva loro di lavorare presso le aule dell’Accademia durante le ore pomeridiane, cosa che altrimenti sarebbe stata vietata. Nel 1949 conclude gli studi all’Accademia, ormai è un artista apprezzato e stimato dagli insegnanti, tant’è che lo stesso Cavalli, lo aiuterà a partecipare ad alcune esposizioni; di quegli anni rimane un bel ricordo, il ritratto al pittore Silvio Loffredo (1949). Durante questo periodo dipinge la realtà che lo circonda, prediligendo la figura umana che esamina a tal punto da cercare di carpirne la parte più intima, nascosta; nei suoi ritratti predomina il lato psicologico del personaggio come in Luisa (1954), dove i colori anti-naturalistici richiamano l’esperienza artistica dei Fauves, oppure in Bambina con collana (1955) in cui la figura è raggiunta unicamente attraverso l’accostamento di campiture cromatiche espressioniste. Le figure, le nature morte e i paesaggi, tra i quali si ricorda Veduta di Colle Val d’Elsa (1957), sono opere che nella loro semplicità formale e cromatica preludono alla successiva produzione artistica del pittore, che abbandonerà il figurativo per dedicarsi a nuove ricerche artistiche. Nel 1955 si trasferisce a Firenze dove entra in contatto con la Galleria L’Indiano diretta da Piero Santi, lì espone con una personale nel 1956, recensita da Pier Carlo Santini sulle pagine de «Il Nuovo Corriere», egli nota la vicinanza con l’opera di Mafai, ma allo stesso tempo aggiunge: “sarebbe erroneo pensare che si giunga a risultati di maniera”, la sua pittura si concentra principalmente sulla “volontà di chiarezza della stesura compositiva”, mentre quella pittorica “si sviluppa in pochi toni dominanti, staccati, semplici ma anche intensificati da una condotta che pur non dando al colore una eccessiva corposità, lo fa vibrare e risonare con trasparente limpidezza” (P. C. S., Mostre d’arte. Walter Fusi all’Indiano, in «Il Nuovo Corriere», 1 aprile 1956). Nello stesso anno inizia a dipingere la serie dei Nudi caratterizzati da una maggiore sinteticità dei tratti, nei quali il “gesto” è l’aspetto centrale e si prediligono i colori neutri o monocromatici. L’anno seguente espone a Roma presso lo Studio d’Arte La Medusa con la presentazione in catalogo di Mario Novi. Al 1958 risale la sua prima mostra astratta negli spazi della Galleria L’Indiano, alla quale seguiranno altre quattro personali (1959, 1961, 1963 e 1964); il poeta Alfonso Gatto, nel catalogo pubblicato in occasione dell’esposizione, individua nelle sue opere un duplice linguaggio pittorico: “Addirittura ragioni opposte possono incontrarsi e coesistere parallelamente senza decidersi a prevalere l’una su l’altra: e accenniamo, nel caso del Fusi, alle opere la cui partitura astratta è tutta giuocata su una sensibile trasparenza ancora tonale rispetto alle altre tentate in chiave nettamente informale in cui il colore accoglie tutta la sua provocazione espressionista o a quelle altre ancora che accennano a una sintassi più ferma, post-cubista che, tanto per intenderci, può richiamarsi ai nomi di un Lèger o del primo Soldati” (Alfonso Gatto, Walter Fusi, cat. della mostra, Galleria L’Indiano, Firenze, 16-26 giugno 1958). In questo periodo, dopo vari studi e interessi verso nuove sperimentazioni artistiche, Fusi giunge alla pittura Astratta pur “non sapendo cosa fosse un astratto”, come dichiara egli stesso, affermando, inoltre, di aver sviluppato una ricerca artistica svincolata da qualsiasi Movimento d’Avanguardia. A tal proposito è significativo l’aneddoto che lo vede protagonista nel 1958 di una esposizione improvvisata con una ventina di opere nella casa del docente universitario e amico Mario Salvadori a Roma, alla quale partecipano personalità rilevanti dell’ambiente romano, tra le quali Alberto Moravia che acquista un quadro per la presente Elsa Morante e il critico Nello Ponente che afferma: “Pittura eccellente, solo che lei è come uno che ha inventato in casa l’ombrello e che, una volta fuori, scopre che tutti lo usano già” (Giuliano Serafini, op. cit., pp. 22-23); nonostante a Roma fossero presenti esperienze analoghe con il Gruppo degli Otto, le opere di Fusi piacciono molto, sono i suoi primi lavori di carattere informale che nascono dalla “scarnitura” del figurativo fino a ricercarne l’essenza e l’elemento fondamentale su cui lavorare diventa il colore. Nel 1959 espone alla VIII Quadriennale d’arte di Roma. Nei primi anni Sessanta Fusi continua solitario la sua ricerca informale; Firenze, nonostante nell’immediato dopoguerra avesse visto interessi verso un rinnovamento artistico, prima con il Gruppo La Porta composto da Silvano Bozzolini, Osvaldo Tordi, Renzo Grazzini ed Enzo Faraoni e in seguito nel 1950 con la stesura del Manifesto dell’Astrattismo Classico, firmato da Vinicio Berti, Bruno Brunetti, Alvaro Monnini, Gualtiero Nativi e Mario Nuti, rimane comunque chiusa a nuove sperimentazioni artistiche ed è difficile, in questo senso, potersi confrontare con altri artisti legati al clima culturale della città. Nel biennio 1964-65 esegue alcuni studi sulle Macchine, o per meglio dire sulle “macchine umane” consapevole che altri avevano già affrontato questa particolare tematica tesa a sottolineare la meccanicità della vita moderna a discapito del “fattore umano”, nascono così opere in cui la grafica accompagna il colore, al centro dell’opera forme verticali, alcune delle quali tubolari, sono contornate da elementi geometrici e tutto fa pensare a dei veri e propri ingranaggi. E’ un periodo di transizione, di passaggio, per mezzo del quale Fusi decide di abbandonare l’informale, non vuole più ripetersi nel lavoro, sente il bisogno di “pulizia” e lo fa percorrendo la strada del geometrico, del Concretismo, lui stesso in seguito, affermerà: “Il lavoro attuale è seguito ad un periodo geometrico strutturale a cui mi dedicai per una sorta di pulizia interiore, necessaria dopo la tensione emotiva, divenuta per me troppo viscerale, della pittura informale; alla fine mi trovai come svuotato, senza idee, a ripetere il quadro che avevo fatto il giorno prima. Io stavo cambiando, la mia vita stava cambiando e il mio lavoro doveva ricominciare da zero per trovare un linguaggio nuovo, darmi una carica attraverso altre esperienze” (Walter Fusi: la forza della pittura. Intervista di Andreina De Vita, in Walter Fusi. Colori cantori, cat. della mostra, a cura di Tommaso Trini; Milano, Living Art Gallery, 16 aprile – 18 maggio 1996; Rozzano 1996, p.9). Questa nuova ricerca coincide con il trasferimento del pittore a Milano nel 1965, dove si reca insieme all’amico Bozzolini. Grazie ad Enrico Castellani trova uno studio a Sesto San Giovanni vicino al suo, a quello di Agostino Bonalumi e Fernando De Filippi. A Milano trascorre un periodo felice, entra in contatto con la Galleria Pagani, nascono nuove amicizie e conosce personalità che hanno caratterizzato la storia dell’arte italiana e non solo, tra i quali Salvator Presta, Lucio Fontana, Achille Funi, Mauro Reggiani, Carmelo Cappello, per non parlare degli artisti stranieri che passavano dalla galleria. Nel 1966 Enzo Pagani gli commissiona un mosaico da realizzare nel Parco Museo di Castellanza al quale lavora nei mesi di giugno e luglio, l’opera di grandi dimensioni (cm. 700 x 245) rappresenta un punto di svolta nella ricerca che stava intraprendendo in quegli anni. Partendo da semplici linee al margine della tela che ad un certo punto si ricollegano formando una curva circolare e all’uso di diversi colori sulle superfici ottiene le Penetrazioni nello spazio. Inizialmente tutto nasce con il colore, poi, laddove le fasce di “tensione e penetranti” si riuniscono in un semicerchio, comincia ad intervenire incollando del cartone sulla tela per creare il senso di “plasticità tridimensionale” e di penetrazione della superficie. Fusi pian piano acquisisce la consapevolezza che con la pittura non sarebbe mai arrivato a creare i rilievi che avrebbe voluto, ed è per questo che l’esperienza al museo Pagani è stata decisiva. In quei mesi realizza il mosaico in cemento armato e pietrisco di vario genere e colori a tessere disuguali, con elementi geometrici di diverse altezze, “con quel mosaico” scrive “avevo portato in quel museo la novità di un mosaico non più piatto ma montato a più piani e con forme-oggetto riportate” (Walter Fusi, Quaderno B. Dossier Personale, 1972). E’ un lavoro importante che da un lato lo avvicina ad un modo diverso di lavorare operando su superfici molto più grandi e in spazi aperti, lontano dalle pareti di uno studio, dall’altro gli permette di andare oltre: insoddisfatto dei rilievi ottenuti sulle tele con dei dischi di linoleum, decide di applicarci due plissè, e lo spazio interno ottenuto è per lui “uno spazio conquistato al di sopra del piano del quadro”, così realizza opere come Penetrazione nello spazio 5 (1967), o Penetrazioni nello spazio 58 (1967). Si apre così una nuova fase sperimentale, nascono infatti opere in cui la terza dimensione è fortemente ricercata e i suoi studi si concentrano sulle Penetrazioni alla rovescia, nelle quali il penetrare è “il vuoto costruito dalle due lamelle in rilievo”, e con l’inserimento di queste lamine, l’opera acquisisce un senso di “musicalità e movimento” dovuti alla variabilità della luce, per cui diventa importante anche il fattore “tempo”. In seguito la ricerca culmina nella scultura, si ha il momentaneo abbandono della tela e l’introduzione di altri materiali come il legno, l’acciaio e il PVC, il supporto viene penetrato da solidi, generalmente parallelepipedi inclinati in vario modo da generare uno “spazio oltre”, ovvero un’estensione immaginaria che nasce al di là di ciò che è penetrato e che può essere uno spazio “conquistato all’infinito” se i solidi sono paralleli, oppure “limitante” laddove le penetrazioni si incontrano. Ad un certo punto Fusi matura l’idea di “penetrare” il pavimento e i muri, e lo fa in occasione della mostra alla Galleria Il Grattacielo nel 1970; nonostante il suo progetto preveda una cinquantina di parallelepipedi penetranti, in realtà, per motivi di tempo, ne utilizza una trentina, arrivando comunque a risultati soddisfacenti: “Avevo creato un ambiente carico di forza scattante e dinamica moltiplicata per le ombre che ottenni sulle pareti, soffitto e pavimento con forti proiettori. A mostra montata mi accorsi che la sala anziché restringersi per l’occupazione di spazi ovviamente presi dai parallelepipedi di colore nero illusoriamente infilati nelle pareti e nel pavimento, si allargava per quello spazio immaginario che i parallelepipedi stessi andavano creando oltre le pareti e il pavimento” (Walter Fusi, Quaderno B. Dossier Personale, 1972). Nello stesso anno le Penetrazioni vengono esposte anche presso la Galleria La Polena di Genova, e nel 1971 alla Jacques Baruch Gallery di Chicago, occasione avuta grazie all’amicizia con Salvadori, residente in America, il quale lo aveva già aiutato nelle vendite oltreoceano durante il periodo informale e in seguito aveva contribuito a diffondere il materiale fotografico e i cataloghi sulla sua produzione artistica. In occasione della mostra a Chicago Baruch decide di andare oltre, utilizzando una parete di tramezzo in modo tale che dei parallelepipedi la penetrassero da parte a parte, ottenendo un “ottimo risultato”. L’anno seguente espone con una personale anche a New York all’Adam Gallery e in una collettiva al The Bertrand Russell Peace Foundation a Londra, durante gli anni milanesi partecipa anche ai Salon des Réalités Nouvelles (1971, 1972, 1973) e ai Salon Grands et Jeunes d’Aujourd’hui (1973, 1974 e 1976) a Parigi. Nel 1972, con lo studio delle penetrazioni concepite in senso plastico, Fusi ritorna alla pittura e all’elaborazione delle penetrazioni su superfici bidimensionali e ottiene le Penetrazioni nelle penetrazioni. In seguito, affinché le opere non risultassero ferme o immobili, decide di inserire degli “spostamenti ritmici di segmenti penetranti” dando vita ad un movimento ritmico, che sarà uno degli interessi della sua futura produzione artistica. Nel 1976 espone a Palazzo dei Diamanti a Ferrara con il pittore Robert Rauschenberg: la mostra segna la fine di un periodo difficile dopo il quale avviene il suo rientro a Firenze nel 1979. Inizia così una nuova fase della sua pittura, durante la quale comincia il distacco dal geometrico, egli stesso, infatti, dice: “ […] sono partito ricercando la sensibilità sulla superficie, che la pittura geometrica, razionale e mentale, escludeva. Dato che non riuscivo più a pensare il quadro e poi a dipingerlo, ho invertito il procedimento, prima dipingevo e poi pensavo” (Walter Fusi: la forza della pittura, op. cit., p. 12). Con la serie degli Ornithes, presentati in occasione della mostra alla Galleria La Piramide di Firenze nel 1981, si apre dunque un altro capitolo: le sezioni diagonali di opere come Penetrazioni 025 (1975), Penetrazioni 026 (1978), oppure Penetrazioni 29 (1979) lasciano il posto a dolci pennellate che superano la razionalità delle forme geometriche, per rappresentare stormi di volatili inizialmente ingabbiati in spazi precisi per poi liberarsi sulla tela e condurre verso un’astrazione diversa da quella iniziale. Di questo periodo, ancora una volta di transizione, di passaggio, necessario per i successivi sviluppi, ricorda: “Fu un episodio molto rapido che ha segnato il distacco con il mio lavoro passato ed ha indicato la direzione del mio lavoro futuro, che deve molto al ritmo, ad una sorta di musicalità che sento intorno a me, nella campagna, nella natura” (Walter Fusi: la forza della pittura, op. cit., p. 13). E’ una fase che lui stesso definisce “concettuale”, una sorta di liberazione che lo porterà verso l’elaborazione di opere che racchiudono in sé l’esperienze passate: quella figurativa, astratta e geometrica. Ecco così, che dal 1986, comincia una nuova ricerca alla quale ancora oggi continua a lavorare: la serie dei Carmina Burana, il cui titolo prende ispirazione da una serata al Teatro Comunale di Firenze, dove Fusi si reca per ascoltare il concerto sull’omonimo componimento poetico di epoca medievale, musicato in seguito dal maestro Carl Orff. Da qui nasce l’idea di realizzare una serie di composizioni che richiamano tutto il lavoro precedente: sono polittici, opere multiple formate da più di una tela, in cui quella musicalità, quel ritmo precedentemente ricercato, già durante il periodo delle penetrazioni, è raggiunto attraverso il giusto equilibrio tra gesto, segno e colore. Fusi sostiene di non aver mai guardato alla tradizione per non esserne influenzato e rischiare di copiarla, ma ad un certo punto della sua vita si è fermato, si è voltato ad osservare il suo di passato e ancora una volta, ha saputo rinnovarsi elaborando un linguaggio artistico originale; i Carmina Burana confermano l’unità del suo lavoro, della sua pittura, che si riconosce, come lui stesso afferma: “ perché c’è qualcosa, un tratto che lega quadro a quadro, come una serie di vagoni ferroviari: uno rosa, uno verde, uno giallo. Uno diverso dall’altro, ma tutti viaggiano insieme…” (Giuliano Serafini, op. cit., p. 27) Oggi la sua opera è presentata nei locali della Galleria Open Art di Prato, con la quale è entrato in contatto nel 2001 esponendo sia in collettive che in due personali: la prima nel 2004, con la presentazione in catalogo di Tommaso Trini e l’altra nel 2007. Da dieci anni si è nuovamente trasferito a Colle di Val d’Elsa, luogo in cui ha avuto origine il suo percorso artistico e dove ogni giorno si è dedicato all’unica vera passione della sua vita: la pittura. Scompare nella sua Colle, dopo una breve malattia, il 15 Maggio 2013 all'età di 88 anni.